Costruire l’impresa intelligente – intervista sulla trasformazione digitale delle PMI a Gualtiero Fantoni

Ad inizio dicembre 2019 è stato pubblicato il testo “Costruire l’impresa intelligente – l’imprenditore consapevole lo fa meglio” ed il 19 dicembre 2019 ho avuto il piacere di intervistare via Skype uno degli autori del libro, il professor Gualtiero Fantoni.

Gualtiero Fantoni è professore associato presso il Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale presso l’Università di Pisa. PhD in Robotica, Automazione e Bioingegneria. È autore di oltre 50 articoli scientifici, co-inventore di 10 brevetti e co-fondatore di 2 aziende.

Personalmente mi sono già interessato in passato al tema delle data-driven company e poichè è una tematica che reputo molto interessante, ho chiesto al professore la disponibilità per rispondere a qualche domanda, relativamente al suo libro ed allo scenario dell’industria 4.0 e delle data-driven company, nello specifico per le PMI italiane.

D’accordo con il professore, l’intervista è stata registrata anche in video, con l’obiettivo di semplificare la stesura di questo articolo. Tuttavia, poiché il materiale era sufficiente, ho deciso – ancora, con l’approvazione dell’intervistato – di pubblicare anche il relativo video che trovi qui di seguito.

Buona lettura quindi e… buona visione.

Ciao Gualtiero, seguendo quello che è lo standard delle interviste del libro, iniziamo questa intervista con una tua presentazione.
Puoi raccontare qualcosa di te?

Dopo la laurea in ingegneria meccanica, per circa due anni ho svolto consulenze per grandi aziende della provincia di Pisa e dintorni, occupandomi di metodi per il miglioramento di prodotto.

Durante questi lavori intuii che il linguaggio naturale tecnico, utilizzato dalle aziende per la documentazione dei propri progetti, potesse essere formalizzato. Mi accorsi anche che – e questo ci avvicina al tema delle data-driven company – le aziende sottovalutano molto il testo che viene prodotto dagli esseri umani, mentre tendono a sopravvalutare i dati prodotti dalle macchine.

Tornai così all’Università di Pisa per un dottorato di ricerca, durante il quale sviluppai le prime soluzioni relative all’analisi dei testi.

Come nasce il libro “Costruire l’impresa intelligente”?

Abbiamo scritto il primo libro sul tema dell’industria 4.0 nel 2016, pubblicato da subito in formato aperto e gratuito con il titolo di Industria 4.0 senza slogan.
Ne abbiamo scritto un secondo l’anno successivo – ancora in formato aperto (con licenza Creative Commons) – con il titolo Ecosistemi 4.0.

Con le grandi aziende facciamo ricerca e collaboriamo da sempre, pertanto le conoscevamo già. Ma nel 2016 si parlava ancora poco di impresa 4.0, e siamo quindi diventati un po’ il punto di riferimento.

Grazie ai libri, siamo entrati in contatto con tante PMI, con alcune delle quali abbiamo iniziato a collaborare. Abbiamo così iniziato a collezionare i casi di successo e gli errori – sia quelli che abbiamo visto fare, sia naturalmente quelli che abbiamo fatto noi – e questo ci ha portati alla creazione di un consistente archivio di informazioni. Informazioni che avevamo già classificato ed organizzato in diverse aree, grazie alla nostra mania ingegneristica di mettere tutte le cose nel cassetto giusto ?.

Insieme ad Annamaria Natelli (co-autrice), abbiamo cercato di togliere quanto c’era di sovra-enfatizzato sul tema 4.0 e di lavorare sui punti di contatto tra le diverse tecnologie, partendo dall’ottima impostazione data dal professor Marcello Braglia (co-autore) che ha classificato le tecnologie in due macro categorie:

  • Le tecnologie fondanti, cioè quelle appartenenti al nucleo del 4.0, costituite dalle tecnologie di integrazione Verticale/Orizzontale, Industrial IoT, Big Data e Analyics e della Cyber Security. Sono le tecnologie che non possono mancare.
  • Le tecnologie abilitanti, cioè tutte le altre tecnologie che possono essere applicate in un secondo momento o in determinati contesti. Sono le tecnologie “opzionali“.

Così è nato il nuovo libro “Costruire l’impresa intelligente”.

Qual è il consiglio che puoi dare ad una PMI per gestire al meglio la fase iniziale di analisi?
Quale questionario è meglio usare?

Iniziamo con lo specificare che la cosa importante non è quale questionario scegli.

L’importante è avere la consapevolezza di quanto sia importante misurare

Misurare prima di iniziare – insieme ad un osservatore esterno – per progettare insieme un percorso e scegliere il punto sul quale lavorare.

Ma se la scelta del questionario non è importante, allora perché ne esistono diversi tipi?

Esistono perchè hanno finalità leggermente diverse.

Non è tanto questione dello strumento. Un questionario con 280 domande è diverso da uno di 120 o da 60, così come metro, calibro e micrometro sono diversi tra loro.

L’importante però è sapere cosa si vuole misurare. Essere consapevoli di questo ti aiuta a scegliere lo strumento migliore.

Ma già sapere che è importante iniziare con una misurazione è un passo avanti importante. E la misurazione ovviamente è poi la base rispetto alla quale valutare i tuoi miglioramenti.

Vedi possibile, magari in futuro, avere uno strumento di assessment unico, al più specifico per mercato verticale? In altre parole, vedi uno standard in futuro?

Direi di sì. Attualmente esiste un pre-standard (DIN SPEC). Quando verrà trasformato in standard, come è accaduto per la ISO-9000, le grandi imprese di certificazione faranno dei questionari – dei modelli di valutazione tipo quelli che abbiamo fatto noi o il politecnico di Milano – che verranno usati per stabilire se rispondi ai requisiti e agli obiettivi dello standard oppure no.

Posso dirti che la Regione Toscana sta finanziando delle specializzazioni del nostro questionario in ambito turistico, retail, per il commercio e così via.

Perchè questo? Perchè il questionario attuale che abbiamo sviluppato va bene in linea teorica, ma certe domande non vengono capite a causa del diverso lessico. Oppure, semplicemente, è necessario adattare la domanda al diverso contesto.

Tuttavia, i settori per i quali dobbiamo creare gli adattamenti sono abbastanza ampi, quindi saranno sufficienti poche varianti del questionario originale.

La stragrande maggioranza delle PMI pare non abbia le skill interne necessarie per affrontare la trasformazione.
Dovendo affidarsi ad un’azienda esterna, qual è l’interlocutore ideale che l’azienda di consulenza vorrebbe trovare nella PMI?

Una persona laureata in ingegneria gestionale, con un po’ di buona volontà ed un po’ di competenze digitali, può essere il ponte giusto tra la PMI e l’azienda di consulenza esterna.
È una persona che conosce i processi, è in grado di ridisegnarli, ottimizzarli e migliorarli, ricreandoli più snelli.
È in grado di governarli, monitorandone i parametri principali.
È in grado anche di parlare con l’esterno, scrivendo delle specifiche comprensibili alle aziende di consulenza esterna, sia essa l’azienda IT che modifica il gestionale o l’azienda di elettronica che crea il sistema RFID.

Penso ad un ingegnere gestionale, ma non solo. Può essere adeguato anche un diplomato in ragioneria con 20 anni di esperienza in quell’impresa. Le caratteristiche che deve avere questa persona sono di fatto tre:

  1. Competenze di processo: queste sono le più importanti. La persona deve sapere cosa serve all’azienda
  2. Competenze gestionali
  3. Competenze digitali

Ti riferisci all’esperto di dominio insomma, corretto?

Sì. Più che cercare l’esperto da fuori, è bene avere qualcuno dall’interno che dica di che cosa ha bisogno l’azienda. Non c’è qualcuno fuori che può dirti qual è la tua ricetta.

Però la persona interna, deve saperne un minimo di gestione e deve saperne un minimo di digitale.

Nel libro raccontate che la spinta alla digitalizzazione dei livelli più bassi della filiera è arrivata dalle capofila che l’hanno imposta dall’alto.
Secondo la tua esperienza, le aziende “costrette” a digitalizzarsi stanno sfruttando questi dati?
Oppure si verifica un fenomeno di “integrazione passiva” che – anche se negativo per le aziende che lo subiscono – potrebbe altresì essere un’ottima opportunità per le aziende di consulenza?

In effetti, solo una piccolissima parte del dato che viene fornito alla capofila della filiera, viene utilizzato internamente dalle imprese.

Questo perchè in questo primo periodo, le aziende più piccole hanno vissuto la trasformazione digitale in maniera molto passiva. Come hai descritto nella domanda, hanno fatto le cose perchè gli veniva richiesto.

Ora, se si verificherà quello che è già accaduto con la ISO-9000 allora sarà un grande fallimento. Tuttavia, la cosa cambierà invece non appena qualcuna di loro – qualche PMI dei livelli più bassi della filiera – inizierà ad ottenere risultati.

Se qualcuno analizzerà i dati in maniera intelligente, il suo approccio diventerà la best practice alla quale tutti si ispireranno.

Ti racconto questo piccolo aneddoto, che è un segno dell’interesse che sta crescendo.

Questo è il secondo anno che l’università di Pisa propone il Master Industry 4.0 Design. Lo scorso anno il master non è partito perchè gli iscritti erano solo 10. Quest’anno invece è partito con 33 iscritti su 35 posti disponibili.

Tra i partecipanti abbiamo anche persone di 40-45 anni che vengono mandate sia dalla piccola impresa (anche da chi sta affrontando i primi passi verso la trasformazione digitale), che dalle grandi imprese che dalle aziende di consulenza (piccole e grandi) .

Questo dimostra che l’esigenza si sente.

Interessante il fenomeno della servitizzazione.
Aziende di prodotto che grazie ai dati che producono riescono a vendere anche servizi (come ad esempio l’ottimizzazione della manutenzione delle caldaie domestiche).
Mi chiedevo se esista un mercato nella direzione opposta, dove uno o più player si stanno attivando per acquistare ed accentrare i dati delle aziende (penso ad esempio ai fornitori di energia).
Che ne pensi?

Sì esiste ed è in qualche modo collegato alla domanda precedente. Io comunque penso che i dati non vadano venduti e comunque MAI regalati.

È dall’analisi dei dati aziendali che puoi capire se alcune lavorazioni sono inefficienti o se alcuni tuoi processi sono mal gestiti. E questi dati dovrebbero essere utilizzati per migliorare il più possibile la parte di processo nella quale la tua azienda apporta il valore aggiunto.

Prendiamo l’esempio di un’azienda che lavora la lamiera tagliandola, piegandola, verniciandola e gestendo la logistica.

Se il tuo valore aggiunto è la verniciatura, i dati potrebbero convincerti ad esternalizzare tutto il resto. Magari c’è qualcuno vicino a te che piega meglio la lamiera. E qualcun altro ancora che si occupa già della logistica interna per altre aziende e potrebbe fornirti il suo servizio con una collaborazione più vantaggiosa per te.

Se tu sei un asso sulla verniciatura, devi focalizzarti sulla verniciatura, che potrebbe allargarsi dalla lamiera a qualsiasi cosa.

Quando si parla di data-driven company, io vedo il “data-driven” come un processo interno all’azienda. È un’attività che ti deve permettere di scoprire qual è l’attività dove eccelli e ti aiuta ad eccellere ancora di più.

I dati, oltre a permetterti di focalizzarti su quello in cui eccelli, ti permettono anche di affidarti ad altri più bravi di te per le altre attività, anche tramite partnership o acquisizioni se possibile.

Invece troppo spesso abbiamo imprese che hanno dei processi eccellenti, sui quali ottengono risultati eccezionali, affiancati a processi pessimi.

E sono aziende che sopravvivono, quando invece potrebbero essere delle eccellenze, scalabilissime, che invece non lo sono perchè hanno dei processi totalmente inefficienti. Magari perchè non hanno nemmeno le competenze dove sono inefficienti, ma insistono.

Tornando al nostro esempio dell’azienda di verniciatura. Magari al tuo interno hai delle ottime competenze di chimica o di fisica della materia… e sprechi il tuo tempo per cercare di far funzionare la logistica.

Fino a qui ho risposto ad una parte della domanda: non vendere i dati.

Dall’altra parte invece bisogna certamente integrarsi con i dati esterni. Noi lo stiamo cercando di fare con le imprese con le quali collaboriamo: cerchiamo di integrare le informazioni interne (che non ha nessun altro), con le informazioni esterne che magari hanno tutti.

Se lavori solo con i dati interni o solo con i dati esterni, hai una prospettiva miope. Ma il mondo non funziona più così.

Ma perchè non vendere i dati? Proprietà intellettuale o altro?

Il problema è che quando li hai venduti, non sono più tuoi. E quando li ha qualcun altro, può farci quello che vuole, anche rivenderli ad un diretto concorrente.

Quando hai dei dati interni che sono puliti, etichettati, ai quali hai aggiunto conoscenza interna, quelli sono il tuo tesoro.

In un’impresa digitale, il valore sono i dati e questi non vanno messi fuori.

Quindi nemmeno i dati di campo, quelli di più basso livello, ancora grezzi?

Proprio quelli non andrebbero messi fuori.

Vedi, ho lavorato per amici che conosco da molto tempo. Per loro ho fatto dei lavori tecnici sul miglioramento dei loro processi, abbiamo sviluppato prodotti insieme.

Però, non ho mai visitato la loro produzione. Quando c’è la manutenzione delle macchine, nell’area di produzione sono presenti solo i due titolari e basta. Quelle macchine, che hanno comprato sul mercato in versione standard, le hanno modificate negli anni.
I parametri di controllo delle macchine li conoscono solo loro.

Quindi, dare i dati di campo, significa dare tutto.
In un’impresa digitale, il valore è nei dati.

All’inizio della tua risposta accennavi al fatto che qualcuno si sta muovendo per acquistare i dati. Puoi farmi un esempio?

Mi riferisco al fatto che tendenzialmente chiunque faccia un servizio di manutenzione da remoto, chiunque “metta i dati sul cloud“, in qualche modo li analizzerà.

La maggior parte delle imprese con le quali lavoro, ha i propri server con installazione on-premise di Azure, SAP o AWS.

All’inizio non capivamo perchè servizi in cloud tipo AWS di Amazon fossero poco diffusi. Poi abbiamo capito che il motivo è questo. Perchè c’è molta ritrosia a mandare fuori i tuoi dati.

Questo, tuttavia, non significa che la gestione dentro l’impresa non sia una gestione di tipo cloud. Tu puoi avere il tuo cloud installato nei tuoi server. Puoi avere un’istanza di AWS nelle tue macchine.

Abbiamo toccato il tema degli Open Data. Tu come li vedi?
Quanto hanno senso in questo scenario?

Gli open data hanno molto senso. Gli open data sono solo apparentemente open, perchè l’aspetto che resta chiuso è la loro interpretazione.
Il fatto che siano open e che siano tanti, non significa che siano facili da usare.

La chiusura è sul come li elabori. Ma il fatto di averli open è già tantissimo. E attenzione che parlo di dati open, non gratuiti.

Quando hai un set di dati sul quale puoi interagire attraverso delle API, ci puoi fare tante cose. E, in realtà, c’è un mercato interessante relativo all’arricchimento dei dati open (in alcuni casi addirittura free).

Mi puoi fare un esempio?

Prendi ad esempio i brevetti. I dati relativi ai brevetti sono tendenzialmente sporchi.

Io te li ripulisco, correggendo tutte le denominazioni delle imprese, senza errori, in maniera pulita. In questo modo tu puoi ottenere tutti i brevetti di un’unica azienda in maniera semplice. Apple, ad esempio, brevetta in un sacco di modi diversi; in stabilimenti diversi; usando nomi diversi.

Nonostante i dati relativi ai brevetti siano open, se io te li metto tutti insieme in modo ordinato, il mio set arricchito di dati è un qualcosa che posso farti pagare un po’ di più.

Perciò c’è molto mercato di database puliti che nascono da open data, sui quali qualcuno ha fatto del lavoro e ci ha aggiunto valore.

Immagina se incrocio i dati dei brevetti con quelli dei fatturati. Sto aggiungendo ulteriore valore. E posso aumentare questo valore incrociando ulteriormente questi dati con gli articoli scientifici, con le capitalizzazioni in borsa o con i dati di Twitter.

Sono tutti dati open, ma più sono arricchiti, più sono puliti e facili da gestire, più è semplice per te analizzarli ed incrociarli con i tuoi dati interni.

Premesso che non esiste una definizione assoluta di data-driven company, da una ricerca per un mio precedente articolo avevo trovato che una possibile caratteristica per definirle era la “democratizzazione dei dati”.
In quest’ottica, tutti i membri dell’azienda devono avere accesso immediato alle informazioni.
Tu ritieni che debbano essere accessibili solo al top-management o aperti a tutti, con le dovute autorizzazioni?

Aperti a tutti con le dovute autorizzazioni. Altrimenti è come se tu dessi la password di admin ad un bambino.

Aprire tutto a tutti è sbagliato ontologicamente. Non è questa la strada. Ma aprire uno strato di informazione a tutti è corretto.

Ti racconto questo episodio che mi è capitato personalmente. Parliamo di una grande multinazionale, tra le migliori con le quali lavoro.

Per avere un’informazione su un prodotto, ho dovuto attendere due giorni. E due giorni sono troppi per un’informazione che avrebbe dovuto essere invece già disponibile a quel livello.
Parliamo di un’informazione senza elementi di segretezza o possibilità di causare danno. È un’informazione che avrei dovuto poter avere a disposizione quantomeno in lettura.

Perchè questo avviene. Perchè la gestione della documentazione ricorda ancora quello che si faceva nel 1800. Sembra di essere in una biblioteca fatta da volumi di carta.

Con la mia impresa che si occupa di analisi dei testi, abbiamo notato che

il vero assente dall’impresa 4.0 è la documentazione

Si trattano i dati delle macchine, come la variazione della temperatura di esercizio, cercando la perfezione assoluta. E poi non si dà alcuna importanza al fatto che una persona dall’ufficio acquisti scriva in un inglese sgrammaticato.

Ad esempio, se cerco di misurare variazioni minime di temperatura quando però i pezzi che produco non sono così sensibili alla temperatura, allora sto sprecando risorse.

Dall’altra parte però, non sto considerando che un documento di acquisto scritto male ha implicazioni sulle azioni legali, sui contratti, ecc.

Rileviamo un problema culturale sulla gestione dei documenti. Documenti archiviati in cartelle di Windows, senza alcun collegamento tra loro. Mancanza totale di ricerca intelligente, che non ti permette ad esempio di trovare tra i risultati i sinonimi delle parole cercate.

Quello che noi stiamo cercando di fare è di costruire un sistema che non è un semplice documentale, ma piuttosto è un sistema di aggiunta della conoscenza sui dati.

Non lavoriamo tanto sui Big Data, quanto piuttosto sulla Smart Information.

Ma tra Big Data e Smart Information in questo momento c’è il vuoto.

Quindi la strada è ancora lunga anche sulla democratizzazione dei dati

Sì, è ancora lunga, ma sarà anche divertente. Bisogna risolvere molti problemi di comunicazione.

Vedi, anzitutto, si parla di data-driven company, ma nella realtà si tratta di “data-driven business unit”. Le imprese hanno le business unit che sono arrabbiatissime sui dati.

Ci sono business unit che hanno un marketing avanzatissimo, con gli strumenti più all’avanguardia e poi la produzione fa acqua da tutte le parti. E di contro, alcune imprese hanno livelli stratosferici di produzione, ma i responsabili di prodotto non parlano nè con le vendite nè con il marketing.

Pertanto si verificano casi di prodotti fantascientifici, che hanno un marketing che fa ridere. Ma solo perchè il marketing non sa che il prodotto è una figata enorme.

Nessuno glielo racconta.

E questo che mi racconti è uno scenario che si verifica in un’azienda digitalizzata

Esatto! Immaginati quindi nelle altre!

Immagina quanto tempo ci vorrà per la trasformazione.

Sembra che industria 4.0 si faccia dall’oggi al domani. Ma non è così.

Ci vorrà molto tempo perchè la trasformazione permei le varie funzioni aziendali. Ed è giusto comunque che le varie funzioni partano da punti diversi, chi da una parte e chi dall’altra. Ma la contaminazione ci deve essere.

Sia sulla fruizione dei dati e dell’informazione. Sia sulla condivisione.


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