Differenza tra social media e social network

Qual è la differenza tra social media e social network? Sebbene nel linguaggio comune i due termini siano utilizzati come sinonimi in realtà fanno riferimento a due concetti decisamente differenti.

E poiché dietro a questa differenza c’è qualche aneddoto interessante, ho deciso di scrivere questo articolo. Articolo che probabilmente ti sorprenderà, perchè potrebbe non parlare esattamente di quello che potresti aspettarti.

Social Media vs Social Network

Le persone pensano che i social network siano un’idea nuova, qualcosa di nuovo da studiare. Ma gli antropologi, iniziarono a parlare di social network negli anni ’30 del 1900.
I matematici ne parlavano negli anni ’50. E i sociologi hanno iniziato a parlarne negli anni ’60

Queste sono le parole del professor Mark Granovetter, sociologo statunitense che nel 1973, sull’American Journal of Sociology, pubblica un paper (una pubblicazione scientifica) dal titolo “The Strength of Weak Ties” (la forza dei legami deboli), sul quale tornerò tra poco.

Mark Granovetter
Prof. Mark Granovetter

Ora voglio però rispondere subito alla domanda: qual è la differenza tra social media e social network?

Bene, anzitutto si può dire che “social network” è un concetto appartenente all’ambito sociologico, mentre “social media” è un concetto dell’ambito informatico.

Se social network si applica infatti a qualunque gruppo di animali sociali, social media è invece un software.

Quindi ad esempio Facebook, LinkedIn e Twitter sono social media.

I colleghi di lavoro, i compagni di classe, un branco di leoni ed uno sciame di api sono social network, ossia gruppi sociali.

Immagine da freepik

I social media sono quindi dei software che permettono agli esseri umani di gestire le relazioni con altri esseri umani, utilizzando strumenti più o meno complessi forniti dalla piattaforma software.

Il paradosso dei legami deboli

Ma del concetto di social network si può dire molto di più.

Il prof. Granovetter, nell’articolo che ti ho citato prima, ha fatto emergere quello che lui stesso, nelle conclusioni del paper, definisce un paradosso.

Pensando alle persone che conosciamo, che frequentiamo e con le quali interagiamo, siamo portati quasi certamente a pensare a quelle con le quali abbiamo un legame più forte. Questo è ovvio ed in qualche modo giustificato anche dall’euristica della disponibilità, secondo la quale, più sentiamo parlare di qualcosa (più è facilmente disponibile nella nostra memoria), più riteniamo che quel qualcosa sia probabile.

Quindi, alla richiesta di pensare a qualcuno di molto importante tra le persone che conosciamo, è naturale pensare ad un parente, ad un amico o a qualcuno in generale con il quale abbiamo un forte legame.

Tuttavia – ed il paradosso è proprio qui – in alcuni contesti i legami deboli sono più importanti di quelli forti. Da un certo punto di vista, non sono i legami forti ad offrirci più opportunità in termini di crescita, sviluppo e qualità della nostra vita, bensì i legami deboli.

Nell’articolo il professore spiega bene cosa si intende per “forza di un legame”, tuttavia è sufficiente il significato che puoi attribuire intuitivamente a questo concetto per proseguire. Avere un legame forte con qualcuno significa avere un rapporto più consolidato e trascorrere più tempo con questa persona.

Ma perché i legami deboli sarebbero così importanti?

Fondamentalmente perché svolgono la funzione di “ponti sociali“. Se non ci fossero i legami deboli, la nostra società non sarebbe altro che un insieme di gruppi isolati di individui.

Gruppi nei quali tutti si conoscono tra di loro, ma nessuno conosce qualcuno al di fuori del gruppo.

(ACDEF) e (BIJHG) sono due gruppi sociali (possiamo immaginarle ad esempio come due aziende distinte). Le linee continue rappresentano i legami forti e quelle tratteggiate i legami deboli. Se salta un qualunque legame all’interno del gruppo sociale (una persona si licenzia), il gruppo sociale resta unito. Ma se saltano i legami deboli tra i gruppi sociali, gli impatti sono molto più evidenti (ad esempio, se A e I cambiassero lavoro, le due aziende non avrebbero più contatti tra di loro)

I legami deboli sono quindi quelli che ci permettono di uscire dalla nostra cerchia. Sono quelli che ci permettono di trovare nuove opportunità e, in ultima analisi, permettono alla società di essere quella che è oggi.

Il concetto di legame debole peraltro è fondamentale per la cosiddetta teoria dei sei gradi di separazione, sulla quale ho realizzato un paio di video.

Attenzione al punto di vista

Ovviamente, per ognuno di noi, per ogni singolo individuo, il valori dei legami forti – il rapporto che abbiamo con le persone che frequentiamo di più – è incommensurabile. Non c’è nessun professore che può convincerci del fatto che il legame con nostra moglie o nostro marito, con i nostri figli, genitori o amici sia meno importante del legame con qualcuno che conosciamo superficialmente.

Tuttavia questa interpretazione, comprensibile, è semplicemente inappropriata. Per comprendere bene il significato della tesi del professor Granovetter, questa va inquadrata con il giusto punto di vista.

Quanto dice il professore va inquadrato dal punto di vista di un sociologo e non di uno psicologo.

Sebbene nel suo paper, il professore dedichi un approfondimento sia al punto di vista dell’individuo, sia a quello della comunità, questi approfondimenti sono sempre relativi alle relazioni con altre persone.

Non è tanto l’individuo in sè, ma una comunità o quantomeno un soggetto e la sua “cerchia” di conoscenze ad essere oggetto della tesi.

Il fatto che i legami deboli (i ponti sociali), siano più importanti dei legami forti, non è da intendersi come una verità assoluta.

Anzi, è lo stesso Granovetter che ci dice che questo paradosso va inteso come un frammento di una teoria più ampia. Che non è possibile considerare i legami tra le persone solo dal punto di vista della forza di tale legame, perché così facendo si ignora tutta una serie di altri fattori, come ad esempio il contenuto di tale legame, o l’impatto dei legami negativi, comunque ben presenti all’interno di una società.

Il paradosso di Granovetter ha più una funzione esplorativa. Vuole generare interesse attorno ad una tematica che fino ad allora non era stata analizzata

L’importanza delle relazioni quando si cerca un nuovo lavoro

Granovetter ha effettuato anche un’altra interessante ricerca, nella quale ha intervistato circa 180 persone che avevano da poco cambiato lavoro, volontariamente. Persone cioè che avevano voluto cambiare un lavoro per migliorare la propria condizione.

Da questa ricerca emergono alcuni dati interessanti che riporto sinteticamente:

  • La maggior parte delle persone intervistate (56%), dichiara di aver trovato il nuovo lavoro grazie a conoscenze. Specificando peraltro che non si trattava di un amico (con il conoscente non c’era un legame forte)
  • Le persone che che avevano lavorato per molto tempo in aziende con basso turnover (dove le persone si fermano a lungo), avevano problemi a cambiare lavoro, perchè non conoscevano persone di altre società
  • Analogamente, persone che cambiavano lavoro frequentemente avevano un problema simile, perché non avevano contatti importanti
  • Dai due punti precedenti emerge che: le persone il cui incarico lavorativo medio era da due a cinque anni avevano maggiori probabilità di trovare nuovi lavori attraverso legami deboli, rispetto alle persone il cui incarico lavorativo medio era molto lungo o molto breve

Inoltre

  • I datori di lavoro si fidano delle informazioni relative alle persone che stanno per assumere quando queste informazioni sono provenienti dagli attuali dipendenti

Le reti sociali generano disuguaglianze nella ricerca del lavoro

Concludo riportando un’ultima evidenza che sembrerebbe emergere dal lavoro di Granovetter.

I social network (che ricorda, non sono i social media) sono uno degli elementi che determinano la disuguaglianza nella società.

Personalmente conosco situazioni nelle quali l’esempio che riporta Granovetter – e di cui ti sto per parlare – è ampiamente superato, ma altre purtroppo dove resta attuale.

Il suo esempio fa riferimento ad una situazione chiaramente caratteristica degli Stati Uniti, quantomeno degli Stati Uniti degli anni ’70. L’esempio tuttavia è facilmente adattabile anche all’Italia (usando evidentemente altri termini).

Si parla di rappresentatività di un gruppo, inteso come gruppo culturale.

Granovetter ci dice che se un gruppo ha poca o nessuna rappresentatività in uno specifico settore del mercato del lavoro, allora sarà difficile per quel gruppo entrare in quel mercato. Questo perchè i datori di lavoro non avrebbero nessuno all’interno dell’azienda che possa portare informazioni.

Ripeto, personalmente credo che in diversi contesti questo sia superato, ma in altri è una situazione che potrebbe persistere tutt’oggi.

Ecco nello specifico il passaggio, che trovi anche verso la fine del video che ti lascio di seguito, dove Granovetter riporta l’esempio prettamente americano.

Se i maschi bianchi possono utilizzare i social network per portare più maschi bianchi nelle loro aziende o nelle loro industrie, nelle loro professioni, allora hanno un vantaggio ingiusto.

Perché se non ci sono persone nere o asiatiche o qualche altro gruppo etnico o razziale già presente in azienda, allora c’è uno svantaggio che non ha nulla a che fare con le qualifiche e ha solo a che fare con la storia del perché le persone sono presenti o meno nell’azienda.


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